Come tutti i suoi amici Giulia è la rampolla di una ricca famiglia “perbene” di una altrettanto ricca e perbene città di provincia del Nord Italia. È iscritta all’università, ma non studia. Le sue giornate iniziano tardi e sono fatte di shopping e aperitivi, di interminabili serate in discoteca ed esclusive feste private. Giulia non mangia, ma si imbottisce di psicofarmaci e droghe. Una corsa verso l’autodistruzione attraverso eccessi di ogni tipo che lascia un solo, esile, margine alla speranza.
Data di pubblicazione: 2004
Editore: Salani
Formato: Libro cartaceo
RECENSIONE
Un ricordo affiora, corposo ed elusivo, dalla nebbia del passato di Giulia, la protagonista di Io non chiedo permesso: “E’ un gioco che facevo da bambina, mettevo la mano con le dita aperte davanti agli occhi e fissavo i visi delle persone, analizzavo i particolari separatamente dal resto della faccia. Un naso, due occhi, una bocca, una fronte e un mento (…) ”. Un gioco al contempo innocente e crudele, capace di rivelare tutto l’orrore nella bellezza e tutta la grazia nella difformità. Gioco necessario per implementare quella acutezza dello sguardo che è il principio costitutivo della parola e della sua potente energia espressiva. Già, perché il gioco di sbirciare quasi di sguincio la realtà si rivela autentica modalità di scrittura. E la parola, è bene chiarire, sarà acuminata, tagliente nella sua limpidezza feroce e implacabile.
Io non chiedo permesso è, in primo luogo, un romanzo sullo sguardo, sempre sospeso tra precarietà percettiva e intensità ipnotica. I personaggi si muovono infatti nella nebbia fumosa dell’invisibilità sociale e la distonia del loro sguardo è all’origine di ogni perplessità, di ogni disorientamento, sino alla nausea, sino alla vertigine. Giulia matura tuttavia una progressiva intensità di visione, gettando lo sguardo allo specchio che la rivela nuda alla verità e alla vita. Così la contemplazione, sempre più through the looking glass, assume i tratti di un’ abrasione, oltre il pallore lunare della pelle, fin dentro l’anima lesa, l’anima –buco ( con tanto di data di scadenza).
Non esiste innocenza nello sguardo: in questo romanzo guardare è già ferire, e l’emorragia è insanabile, come un rubinetto che continua a stillare. Ma lo sguardo può, a tratti, assumere intensità visionaria: dinanzi alla progressiva parcellizzazione del reale, la visione si sfalda, sino alle soglie della trasfigurazione. Si pensi, a questo proposito, all’incubo di Giulia che scorge sacchetti di plastica appesi agli alberi, contenenti volti rugosi di vecchie sorridenti. Davvero qui lo sguardo assume un potere di rivelazione, o meglio di ansia epifanica, prefigurando il destino di Giulia e conferendo alla scrittura una vigorosa tensione-torsione espressionistica.
Ma Io non chiedo permesso è anche un potente romanzo sulla funzione anticoesiva degli oggetti che rivelano, dietro l’apparente familiarità, la loro estraneità perturbante, sino alla contaminazione surreale di una bambola di cera dalle interiora di cotone, corrispettivo di questi hollow men alla deriva. Si potrebbe al limite postulare una dilatazione ipertrofica degli oggetti, che non marcano mai un’ appartenenza, neanche nel possesso. Su tutti campeggia, immagine tanto scabra quanto eloquente, il tronco “secco, sbiancato dal mare”, dimenticato in un angolo dall’ultimo Natale. Nel mare dell’oggettività anche i luoghi, che potrebbero svolgere una funzione proiettiva e protettiva, sono deprivati di ogni aura, non dico salvifica, ma almeno pacificante. I mani e i lari hanno abdicato a questi antri di angoscia, budelli ciechi, come si evince dalla rete labirintica di corridoi dis-amniotici. E sarà, appunto, un catalogo di non -luoghi, a tratti furioso, a tratti ossessivo, il paradigma di questa sur- modernità grassa e disperata. E, va da sé, la vita stessa è reificata e si configura come una catena inerte di mozziconi spenti … Si potrebbe almeno piangere, ma all’interdizione affettiva si coniuga l’ostracismo del pianto: “nessuno devi vedermi piangere. Io non devo piangere”, pensa Giulia … Parole che riecheggiano le note allegramente disperate di Imitation of life dei REM: “No one can see you cry”. E si rimane ancora lì, come in un fotogramma allucinato, “ freezing in the corner”… E sarà l’angolo gelato della doccia nello struggente explicit del romanzo a spazzare via lacrime e sangue, in un finale che tutto dice, anche nei suoi silenzi. Questo è tutto, questo solo vi è dato sapere del potente affresco della disillusione che è Io non chiedo permesso.
Irene Palladini ricercatrice universitaria