Bastano poche righe e subito si pensa: Bret Easton Ellis. E il riferimento è ulteriormente confermato poco più avanti, a pagina 70, quanto la protagonista – Giulia – lo dichiara il proprio autore preferito. Giovani ricchi e viziati dunque, persi nel nulla della loro noia, asfissiati dalla loro indifferenza, dediti al sesso, alla droga e al divertimento, trasposti dalla west coast americana alla meno mitica pianura padana. E il romanzo è tutto qui, aggrovigliato nella fuga/ricerca da/di un senso forse inesistente tra le cui spire tutti restano invischiati.
Per fortuna nello sviluppo della storia la giovane autrice si discosta dal riferimento americano e tenta una strada più autonoma, soprattutto nella definizione psicologica dei personaggi, non nei contenuti delle loro vicende,. In modo particolare questi – e più di tutti Giulia, che racconta in prima persona – dimostrano una consapevolezza e una lettura della propria insoddisfazione che in Bret Easton Ellis non è nemmeno lontanamente presente. Assume, questa consapevolezza, i contorni di una declinazione europea – o, meglio, italiana – dello stile di vita narcisista e superficiale descritto nel romanzo e rende forse inutile la violenza che conclude la storia, perché il senso di vuoto e desesperanza – alla Àlvaro Mutis – si è già trasmesso nella sua totalità. Si ha quasi la percezione di un “male di vivere” di pavesiana tradizione spurgato però da qualunque riferimento politico e tradotto solo su un piano esistenziale. Può non piacere, ma ha indubitabilmente un suo gelido fascino.
L’autrice è brava ad evitare alcune facili trappole narrative verso le quali, a metà del libro, la storia sembra andare ad impantanarsi – il bisogno di amore vero e non di “sesso”, la figura mitizzata del primo amore adolescenziale, morto in un incidente stradale, che lancia il suo canto di sirena, oscillante tra erotismo e morte – e la porta a conclusione con sufficiente mestiere, anche se alla fine, qua e là, alcune parti risultano un po’ ripetitive o ridondanti e si cade in qualche luogo comune. L’unico appunto che le si può muovere è che non sempre è necessario in un romanzo “spiegare” quello che accade, a volte è molto più efficace limitarsi a “raccontare”, l’eccessiva razionalizzazione infatti può svuotare gli eventi, renderli privi di significato – ed anche il nonsense di cui il libro è impregnato ha un suo preciso senso morale -. Ma siamo certi che fin dal prossimo lavoro saprà come rimediare.
di Francesco Ongaro
Fonte: mescalina.it