Un eclettico è una nave che vorrebbe procedere con quattro venti.
Charles Baudelaire
Marilù Manzini è una donna forte, passionale, curiosa e creativa, una donna che ha vissuto fino in fondo ogni momento della sua vita e che ha saputo trarre ispirazione da ogni aspetto triste o felice che fosse. Marilù Manzini è anche un tutt’uno con il suo essere artista, con la sua instancabile ricerca di materiali e di tecniche compositive sempre nuovi, che possano dare forma alla sua fervida creatività e ai suoi diversi filoni narrativi.
La materia pittorica delle prime opere è una materia di colore che sembra voler imbrigliare l’energia stessa che l’ha creata, con visioni oniriche e a volte quasi terrificanti, in alcune di queste opere come in “angelo caduto”, tra i primi esempi di pittura polimaterica che torna spesso nell’opera della Manzini, la pittura fatta di pennellate energiche e colori drammatici si armonizza con le parole e le lettere ritagliate e incollate sulla tela. Le parole sono usate non per il loro significato semantico ma per la loro valenza di segno grafico, la lettera ritagliata assume il ruolo di linea di colore nero sulla tela, di dis-segno creando lo sfondo da cui emergono le sofferenti figure. Le prime opere della Manzini sono fortemente tormentate e riflettono il suo dolore e dramma interiore, legato ad alcuni dolorosi episodi della sua vita personale. Le opere della Manzini non sono autobiografiche in senso stretto, ma riflettono sempre alcuni suoi stati d’animo particolari, per la Manzini l’arte è un’espressione del tormento creativo che ha dentro e ne è al contempo la cura stessa, una lotta con la materia e lo spazio di vita del quadro.
La Manzini gioca con le parole e rivisita il concetto di “pittura di paesaggio” nella sua personalissima maniera, scrivendo con il colore corrispondente le parole cielo, pioggia e terra per indicare i tre concetti che creano il suo paesaggio urbano riconoscibile dagli edifici stilizzati inseriti. La tecnica questa volta è molto pop ovvero attraverso lo stencil, strumento che era in ogni cartella di ogni bambino italiano che andava a scuola negli anni ’80, la Manzini scrive e dipinge, creando un effetto sintetico e ripetitivo di grande impatto visivo. In questo caso le parole mantengono il loro senso e significato, ma la ripetizione ne valorizza ancora una volta la valenza grafica, come puro segno di colore, in questo modo l’artista riesce a realizzare un paesaggio figurativo e allo stesso tempo astratto, un paesaggio riconoscibile e contemporaneamente irreale.
Tematiche da sempre care all’artista sono il gioco e le icone pop, spesso intrecciate come ad esempio nella Kate Moss protagonista de “Il Pranzo è servito”, “un condensato di modernità, di linguaggio mediatico e comunicazione, sono delle immagini che raccontano intere storie in pochi frammenti. L’artista associa contrasti di significati, crea contraddizioni apparenti, sfida lo spettatore con la sua sincerità nel dichiarare che a volte “il re è nudo”.
L’intento non è mai di denuncia o accusatorio, semplicemente la Manzini osserva, racconta, prende nota di vicende, per altro sulla bocca di tutti, per ironizzarci sopra, per renderle più umane, quasi per sdrammatizzare senza però farci dimenticare ciò che accade. Riportare un dramma vissuto come per esempio quello della Kate Moss ne il pranzo è servito non ha alcun intento distruttivo o di monito: le malattie, le dipendenze fanno parte della vita di ciascuno, sono un pericolo che tutti corriamo ma non per questo dobbiamo averne paura. La Manzini cerca la verità sulla natura umana e gioca con i suoi contrasti, le sue debolezze.” (Alessandra Bertolè Viale- Ne poco Ne troppo sul serio- 2011).
Un punto nodale, che segna un’evoluzione ed una perfetta amalgama della cultura del gioco, delle icone pop e della ricerca di nuove tecniche è rappresentato dai puzzle painting e dalla pista cifrata, entrambi del 2013. Partendo dalla sua personale attrazione e passione per i giochi della Settimana Enigmistica, la Manzini trae ispirazione per trovare nuove ed originali forme espressive.
Il gioco è quello dell’unire i punti in sequenza, la pista cifrata appunto, e formare un disegno e quindi l’opera si sviluppa e si crea attraverso la volontà dell’artista di tracciare la linea vitale che garantisce la vittoria nel gioco stesso. L’immagine all’inizio appare come una sequenza di numeri e segni grafici nello spazio, un’immagine informe, che prende corpo e vita attraverso il gesto artistico, che è sempre un gesto consapevole e divino con la sua capacità di generare.
Tornano i volti dei personaggi famosi cari a Marilù, ritratti che si dispiegano man mano che il pennarello compie il suo tragitto obbligato. I Puzzle Painting sono molto originali nel panorama artistico contemporaneo e rappresentano una novità assoluta, sono vere e proprie tessere in cartone lucido che componendosi vanno a costruire il piano pittorico su cui Marilù ritrae i volti di personaggi famosi, a lei e a tutti noi cari, con pennarello indelebile. In questo caso quindi non è tanto la tecnica pittorica o il tema rappresentato ad essere innovativo, quanto il supporto stesso, il materiale su cui si dipinge.
Come un artigiano d’altri tempi, la Manzini ha fatto una lunga ricerca sul materiale più adatto e più flessibile per realizzare l’opera e ne ha sfruttato tutte le caratteristiche per tagliarlo con le più moderne tecnologie..
Il delicato bianco nero restituisce immagini pulite, leggere, molto grafiche, ricordano la struttura stessa del settimanale cui sono ispirate e ribadiscono il legame con la Manzini scrittrice.
L’idea del puzzle, della scomposizione, viene poi ripresa in opere successive evolvendo verso la tridimensionalità della scultura e aggiungendo il colore per suggerire un “divisionismo pop” di grande effetto, la scomposizione estrema del colore e la sua ricostruzione.
Un filone molto diverso da tutta la produzione precedente, ma sempre segno dell’instancabile ricerca di novità e della volontà di esplorare ogni aspetto dell’umano, è la serie delle estroflessioni, opere nate per uno spazio preciso e fortemente caratterizzato quale l’Oratorio della Passione presso la basilica di Sant’Ambrogio a Milano. Le estroflessioni sono un ponte con il divino, uno spazio intermedio tra il reale e fisico spazio della stanza e lo spazio infinito mentale del divino. L’estroflessione è l’anima che sta per nascere, il miracolo della vita che viene al mondo.
L’ultima produzione in ordine temporale è di nuovo una riflessione sui materiali e le loro potenzialità come strumento di disegno. Compaiono spugne, spille da balia, cerchi di metallo, vestitini della barbie e delle bambole scelti per il loro colore e impatto visivo, cuciti o incollati sulla tela, e da ultimo gomitoli di lana e pelo. Le opere di Marilù Manzini prendono spesso spunto da un vissuto personale, suggestioni dalla propria vita e frammenti dei propri pensieri. L’idea di lavorare con la lana e pelo è nata in inverno, quando indossiamo capi caldi. Le spille da balia invece sono una rievocazione e rielaborazione di una sperimentazione adolescenziale, quando l’artista creò una giacca sulla quale con le spille ha sagomato un crocifisso.
Ne nascono composizioni oniriche e surreali, in cui i volti dei personaggi famosi vengono sublimati attraverso i tessuti oppure resi ancora più duri e scheletrici dal metallo delle spille da balia come nel caso di Mickey Mouse. Ritratti sintetici in cui solo pochi inconfondibili particolari rendono riconoscibile il soggetto, particolari che divengono quasi attributi iconografici, come quelli che si usavano nel medio evo per riconoscere i santi. Disegnare con i tessuti colorati, in particolare con la lana e con i vestitini delle bambole, crea una particolare suggestione di astratto, trasformandosi in un agglomerato di colori, che fanno perdere l’iniziale riconoscibilità del soggetto, per poi farlo riemergere in una successiva osservazione in cui il nostro occhio legge in maniera diversa la composizione. I lavori con i tessuti, pur se realizzati con una tecnica molto diversa e quindi con esito diverso, possono evocare i ricordi degli arazzi, non tanto quelli dei cinquecenteschi quanto quelli colorati e suggestivi di Chagall e Mirò.
Le opere sono una perfetta sinestesia visivo-tattile in cui i colori dei tessuti, la loro morbidezza e consistenza stimolano i nostri sensi: il movimento di linee ricorda una sinfonia musicale, un vivace intreccio di suoni silenziosi.
Non si tratta di un semplice ritorno all’infanzia, una nostalgica rievocazione di un’innocenza perduta, quanto una ricerca suggestiva di quella libertà compositiva, di quella visione giocosa, senza schemi e pregiudizi che ha sempre caratterizzato la produzione della Manzini.
Una nota a parte merita la produzione fotografica: la foto drammatica fatta per la Giornata della Memoria è uno straziante urlo muto di fronte al dramma dell’Olocausto, un’immagine violenta, che ci colpisce come un pugno, ma che sintetizza tutti i soprusi, le sofferenze ma anche il desiderio di sopravvivere e di rinascere. La serie “autopsia di una star” ironizza sul concetto che “morti siamo tutti uguali” e che di tutto il successo, la fama, i fans non rimane che il silenzio sotto il lenzuolo. I piedi, la parte meno fotografata di una star e forse meno nota, sono resi protagonisti attraverso il primo piano, suggestivo rimando al Cristo Morto del Mantegna.
La foto “Breathe”, che ha avuto un enorme successo e riscontro dal pubblico, affronta il tema molto delicato dell’inquinamento atmosferico, ironizzando sull’uso delle maschere antigas che ci allontanano e separano dal resto del mondo, e nonostante la situazione sia ormai compromessa la donna non rinuncia lo stesso a fumare, anche perché il fumo di sigaretta è forse più salutare di molti gas di scarico e polveri sottili che respiriamo.
In un turbinio di colori, di parole, di materiali e di personaggi famosi la Manzini ci conduce nel suo mondo, attraverso il quale possiamo conoscere meglio il nostro, senza ipocrisie, senza falsi miti, il nostro mondo dove l’uomo è protagonista nel bene e nel male con la sua capacità di creare e di distruggere.
Alessandra Bertolè Viale, 2019